27 Gennaio: Ricordare è necessità
Cara Kitty,
da domenica mattina a
oggi sembra che siano passati degli anni. Sono avvenute tante cose da
far credere che il mondo si sia capovolto. Ma, Kitty, vedi bene che
vivo ancora, e questo è ciò che conta, dice papà. (…)
Alle tre
(Hello se n’era appena andato, per tornare più tardi), qualcuno suonò
alla porta. Io non udii, perché stavo in veranda e leggevo prendendomi
il sole distesa su una sedia a sdraio. Poco dopo comparve Margot,
eccitatissima, alla porta della cucina. – C’è una chiamata delle SS per
papà, – mormorò,- mamma è già andata dal signor Van Daan-. (Van Daan è
un buon amico, collaboratore di papà nella ditta). Mi spaventai
immensamente; una chiamata, si sa che cosa significhi. Nella mia mente
già vedevo campi di concentramento e celle di segregazione. E doverci
lasciar andare il babbo! – Naturalmente non si presenterà,- mi spiegò
Margot, mentre in camera aspettavamo il ritorno della mamma.- Mamma è
andata da Van Daan per consigliarsi se convenga trasferirci nel nostro
rifugio segreto. Siccome i Van Daan verranno con noi, saremo sette in
tutto -. Silenzio. Non potevamo più parlare. Il pensiero di papà che,
senza sospettare nulla di male, era andato a visitare dei vecchi
all’Ospizio ebraico, l’attesa di mamma, il caldo, la tensione, tutto ci
faceva tacere.
Suonarono di nuovo. E’ Harry, – dissi io.- Non
aprire, – fece Margot, trattenendomi. Ma era inutile: udimmo mamma e il
signor Van Daan che parlavano di sotto con Harry, poi entrarono e
chiusero la porta dietro di sé. Ora a ogni scampanellata io o Margot
avremmo dovuto scendere piano piano per vedere se era papà, e non
aprire a nessun altro.
(…) Nasconderci! Dove dovremmo
nasconderci, in città, in campagna, in una casa, in una capanna,
quando, come, dove…? Erano problemi ch’io non volevo pormi, e che tutta
via continuamente raffioravano. Margot ed io cominciammo a stipare
l’indispensabile in una borsa da scuola. La prima cosa che ci ficcai
dentro fu questo diario, poi arriccia-capelli, fazzoletti, libri
scolastici, un pettine, vecchie lettere; pensavo che bisognava
nascondersi e cacciavano nella borsa le cose più assurde. Ma non me ne
rammarico, ci tengo di più ai ricordi che ai vestiti.
Alle
cinque finalmente arrivò papà; telefonammo al signor Kleiman e gli
domandammo se sarebbe potuto venire quella sera stessa. Van Daan andò a
prendere Miep. Miep arrivò, mise in borsa scarpe, vestiti, biancheria,
calze, e li portò via promettendo di tornare la sera.
Poi vi fu
silenzio nella nostra casa; nessuno di noi quattro volle mangiare,
faceva ancora caldo e tutto pareva tanto strano. Avevamo affittato la
grande camera del piano di sopra a un certo signor Goldschmidt, un uomo
divorziato, sulla trentina, che quella sera sembra non avesse nulla da
fare, perciò rimase a ciondolarci attorno fino alle dieci, e con buone
parole non c’era verso di liberarcene.
Alle undici giunsero Miep
e Jan van Gies. Miep lavora con papà dal 1933 ed è divenuto una nostra
intima amica, così come il suo novello sposo Henk. Scarpe, calze, libri
e biancheria scomparvero ancora una volta nella borsa di Miep e nelle
profonde tasche di Henk; alle undici e mezza se n’erano andati anche
loro. Io ero stanca morta, e sebbene sapessi che quella era l’ultima
notte che avrei passato nel mio letto, dormii sodo e fui svegliata alle
cinque e mezza dalla mamma. Per fortuna faceva meno caldo che domenica,
e piovve poi tutto il giorno. Ci infagottammo tutti e quattro come se
dovessimo passare la notte in una ghiacciaia, e ciò alla scopo di
portar via quanto più vestiario potevamo. Nessun ebreo, nelle nostre
condizioni, avrebbe osato uscir di casa con una valigia piena di abiti.
Io avevo addosso due camicie, tre calzoncini, una sottoveste, una
sottana, una giacchetta, una giacca da estate, due paia di calze,
scarpe pesanti, un berretto, uno scialle e altro ancora; soffocavo già
prima d’uscire di casa, ma nessuno se ne preoccupava. Margot riempì la
sua cartella di libri scolastici, tolse la bicicletta dalla rimessa e
filò dietro a Miep per destinazione a me sconosciuta. Io infatti
continuavo a ignorare dove fosse il luogo misterioso che ci attendeva.
Alle sette e mezza anche noi ci chiudemmo la porta dietro; l’unico
essere da cui presi congedo fu Moortje, il mio gattino, che avrebbe
trovato buon alloggio presso i vicini, come era detto in una lettera
indirizzata al signor Goldschmidt.
In cucina un bel pezzo di
carne per il gatto e le tazze della colazione sul tavolo, i letti
disfatti, tutto lasciva l’impressione che noi fossimo scappati a rotta
di collo. Ma le impressioni degli altri non ci importavano, noi
volevamo andar via, via, e arrivare al sicuro, nient’altro. Continuerò
domani.
La tua Anna
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
Primo Levi